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Roberto Cipriani - Luigi M. Lombardi Satriani
(a cura di)
IL CIBO E IL SACRO
ARMANDO
EDITORE
Sommario
Introduzione: Il calore divino del cibo
7
LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI
PARTE PRIMA: LE ORIGINI
La comida (y bebida) como ritual: sacralidad,
comensalismo e identidades colectivas
9
11
ISIDORO MORENO
Raccogliere briciole alla tavola di Omero: cibo, digiuni e
ambigui banchetti nel mito greco
29
LAURA FARANDA
Ermeneutica del cibo in prospettiva biblica
47
GASPARE MURA
Recupero conviviale di laceranti distacchi
57
OTTAVIO CAVALCANTI
PARTE SECONDA: I SIGNIFICATI
Cibo e sacro. Un’analisi fenomenologica
69
71
ANGELA ALES BELLO
La manducazione della parola nell’antropologia del gesto
di Marcel Jousse (1887-1961)
85
BIAGIO LORÉ
Desiderio desideravi
99
ROBERTO CIPRIANI
PARTE TERZA: I CULTI
Lungo il tratturo. Rappresentazioni, pratiche e senso
della devozione nella “tradizione” enogastronomica molisana
111
113
LETIZIA BINDI
San Biagio tra culto e leggenda: riflessioni sul pane sacro in Abruzzo
125
ALESSANDRA GASPARRONI
A tavola con i santi in Sicilia: una tradizione nella modernità
139
CARMELINA CHIARA CANTA
Cibo, salute e salvezza nella Chiesa Avventista del Settimo Giorno
VERÓNICA ROLDÁN
163
Elenco dei contributi pubblicati on-line
Cibo e sacro. Il cibo nel Vangelo fra condivisione e rivelazione
EGERIA DI NALLO
2
Tra simboli e riti. Il linguaggio del corpo e del cibo nella celebrazione cristiana secondo la
variegata complessità delle culture
MANLIO SODI
6
Fame mistica. Il gusto del miele eucaristico
CAROLINA CARRIERO
16
I cibi delle streghe nell’immaginario di un arcipelago del Mediterraneo occidentale
MACRINA MARILENA MAFFEI
25
Divorare ridere rigenerare. Il paesaggio alimentare nella cultura popolare
PAOLA ELISABETTA SIMEONI
36
Immagini del sacro nelle mense dei secoli XV-XVIII.
Dal Banchetto rinascimentale ai temi della Vanitas
TIZIANA D’ACCHILLE
51
Dallo home-banking allo home-baking. Sobrietà, sostenibilità e solidarietà nelle nuove culture
del pane
CRISTINA GRASSENI
68
Dalla mela di Adamo alla cioccolata cattolica
CLAUDIO BALZARETTI
74
Il divieto del maiale e la purezza della carnalità. La minaccia della contaminazione nelle
proibizioni alimentari
ROSA PARISI
83
«Secondo le intenzioni della padrona e il volere di S. Giuseppe» Pietà popolare e rituali
alimentari nel Salento
VINCENZO ESPOSITO
93
I contributi pubblicati on-line sono reperibili collegandosi all’indirizzo:
www.armando.it → Scheda volume
Introduzione
Il calore divino del cibo
LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI
Che il cibo sia indispensabile alla nostra sopravvivenza fisica è constatazione talmente facile da essere considerata ovvia; che esso sia ugualmente
necessario per quella psichica e culturale non sembra essere così scontato.
Eppure, se ripercorriamo le varie fasi dell’esistenza degli individui e delle
comunità e i momenti che la scandiscono caricandoli di valore simbolico, ci
rendiamo conto quanto il cibo sia essenziale perché l’uomo, quali che siano
la società alla quale appartiene e la cultura da essa elaborata, si riconosca
come tale, partecipe di una comunità, portatore di progetti, titolare di futuro.
Gli esempi potrebbero essere innumerevoli ed essere attinti da molteplici
universi letterari e dalla letteratura propria dei diversi ambiti delle scienze
dell’uomo.
Mi limiterò a ricordare le parole con le quali Gesù Cristo instituisce
nell’Ultima Cena l’Eucarestia: «poi prese il pane, lo spezzò e disse: “prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi”. Poi
prese il calice, rese grazie, lo diede ai suoi discepoli e disse: “bevetene tutti,
perché questo è il mio sangue dell’alleanza versato per tutti in remissione
dei peccati”».
A esse aggiungo, a mero titolo esemplificativo di quanto la poesia abbia
celebrato gli alimenti, i versi danteschi: «E perché meno ammiri la parola/
guarda il calor del sol che si fa vino/ giunto all’amor che della vite cola/».
Stazio, il poeta latino che accompagna Dante e Virgilio pellegrini nell’Aldilà, chiarisce così il rapporto fra anima e corpo, fra essenza materiale ed
*
Sapienza Università di Roma.
7
essenza spirituale dell’uomo, proponendo anche l’immagine del calore del
sole quale similitudine della potenza creatrice divina.
Consapevoli di ciò, Roberto Cipriani e io abbiamo invitato antropologi,
sociologi, filosofi, teologi, storici, demologi, storici dell’arte e altri specialisti a rapportarsi, ognuno dal proprio punto di vista e con la strumentazione
concettuale e metodologica della propria disciplina, con tale complessa problematica indagandone alcuni segmenti e articolazioni.
Ne è venuto fuori un affascinante convegno protrattosi per tre giorni, denso di relazioni, interventi, dibattiti.
Un’accurata selezione di essi, assieme ad alcuni interventi di studiosi che
avevano aderito all’iniziativa, ma che non avevano avuto poi la possibilità di
parteciparvi, viene ora presentata, in varie forme dalla casa editrice.
Resisterò in questa sede alla tentazione di intervenire sui diversi contributi, perché si supererebbe di molto i limiti di questa prefazione.
Intendo sottolineare soltanto che quanti leggeranno le relazioni e l’ampio
apparato iconografico si renderanno conto che questo titolo Il cibo e il sacro,
curato da Roberto Cipriani e da me, si pone come un punto di riferimento per
questo tipo di approfondimenti problematici.
Non è, questa sottolineatura, frutto di enfasi celebrativa: un risultato siffatto del libro è merito degli autori dei diversi contributi che hanno aderito
pienamente alla nostra iniziativa, illuminandone criticamente i diversi aspetti.
A loro, dunque, il nostro grazie, che rivolgiamo anche a Bianca Spadolini,
che dirige con passione scientifica e rigore l’Armando; alla segreteria organizzativa coordinata da Katia Ballacchino sollecita e puntuale nelle diverse
fasi di preparazione del convegno e dell’allestimento del libro.
Infine intendo esprimere la mia soddisfazione per la collaborazione piena
e intrisa di reale cordialità con Roberto Cipriani, collega e amico con il quale
abbiamo condiviso scelte e valutazioni.
8
PARTE PRIMA
LE ORIGINI
La comida (y bebida) como ritual: sacralidad,
comensalismo e identidades colectivas
ISIDORO MORENO*
El carácter social y cultural del comer
Comer y beber, como respirar, es un requisito imprescindible para la conservación de la vida individual humana. Es esta una necesidad que compartimos con el resto de los seres vivos. Comer es, por tanto, una respuesta
inducida por el instinto de conservación. Al igual que es la satisfacción del
instinto sexual lo que puede llevar (aunque no necesariamente) al coíto, indispensable para la reproducción de las especies sexuadas, incluida la humana. Pero como los seres humanos somos animales culturales y la vida social
humana se fundamenta en la capacidad simbólica, es decir, en la atribución
de significados y valoraciones que pueden ser muy diferentes a todas las
cosas y todos los comportamientos, hemos construido en torno a la alimentación, como también en torno a la sexualidad, todo un sistema de reglas,
prescripciones, tabúes, interpretaciones y sentidos que las hacen ser actos
culturales y sociales y no simplemente comportamientos destinados a la supervivencia, individual y colectiva.
Si comer fuera sólo satisfacer este instinto, no se daría una selección –
muy diferente en las diversas culturas – de qué recursos deben ser considerados, y cuáles no, como alimentos humanos, siendo los alimentos potenciales
mucho más numerosos que los definidos como tales en cada sociedad concreta. Si fuera sólo una cuestión de ingesta, los progresos actuales habrían
llevado a que pudiéramos alimentarnos con unas cuantas pastillas que contuvieran los elementos necesarios. Pero esta profecía orwelliana no se ha
cumplido y el comer y beber continúa siendo, en todas las sociedades, un
*
Catedrático de Antropología Social, Universidad de Sevilla.
11
hecho social total – para utilizar la categoría acuñada por Marcel Gauss – ya
que en él están presentes e interaccionan las diversas dimensiones de la vida
social humana.
No cualquier elemento disponible susceptible de ser “alimenticio”, por
tener las características dietéticas adecuadas, pasa a convertirse en alimento
para los integrantes de una sociedad, ni, en la mayoría de los casos, su ingesta
se realiza sin preparación y transformación previa. La cocina es un universal
humano, aunque la forma de cocinar sea muy diferente en las distintas culturas. Y no se come – como no se defeca, se descansa o se mantienen relaciones sexuales –, en cualquier momento y lugar, como sí ocurre en las demás
especies animales. Tampoco el comer y el beber son actividades individuales sino sociales, aunque en las sociedades occidentales contemporáneas el
ritmo de trabajo y el estress hagan que muchas personas coman solas (o en
soledad compartida con otras personas) y beban privada y solitariamente.
Constituye, sin duda, una paradoja presente en todas las sociedades humanas que el comer, que es una actividad causada por una necesidad biológica
individual con finalidad también individual, se realice en un contexto social
mientras que copular, que es también resultado de una pulsión individual
pero cuya trascendencia biológica es colectiva, la reproducción del grupo, no
se realice, salvo excepciones, en un contexto social sino privado.
Que el carácter de la comida como hecho social y hecho cultural se superpone e incluso puede anular las finalidades materiales (biológicas) del
comer lo demuestra el que tomemos comidas (o bebidas, o drogas) que sabemos serán nocivas para nuestra salud y que incluso podamos “vencer” al
propio instinto que nos induce a comer haciendo, por ejemplo, una huelga
de hambre para defender valores o reivindicar objetivos que consideremos
más importantes que nuestra propia conservación personal. Como también –
siguiendo con la analogía respecto a la sexualidad – se pueden sublimar, de
forma más o menos permanente, los deseos sexuales rehusando a desarrollar
una vida sexual “normal”, por valores religiosos o construyendo la idea de
amor platónico.
En muchas culturas, la propia definición de la familia como “aquellos que
comen juntos” subraya el carácter social, y no individual, de la comida. Y el
comensalismo – al que me referiré más adelante in extenso – está presente
en todas las sociedades. Todos los seres vivos se alimentan pero sólo los humanos cocinan y establecen reglas respecto al comer y el beber. Al igual que
todas las especies sexuadas copulan pero sólo los humanos hemos inventado
el erotismo e incluso el amor. La mediación cultural hace que las actividades
12
y comportamientos para la satisfacción de los dos instintos básicos no se
realicen consumiendo instantáneamente los objetos de deseo sino dotando a
estos de significaciones que van mucho más allá de sus simples propiedades
para ofrecer dicha satisfacción.
En los libros antiguos del Hinduismo, concretamente en los Upanishads,
están contenidas dos ideas en cuanto a la relación de los seres humanos con
la comida que han vuelto a ponerse de moda en los últimos años, aunque descontextualizadas, y que creemos de gran interés: “somos lo que comemos” y
“comemos lo que somos”.
“Somos lo que comemos” expresa toda una filosofía: la pureza espiritual
está fundada en la corporal, y el cuerpo está determinado por los alimentos
que consume y en qué cantidad. Se alcanza la pureza y la armonía alimentándose con alimentos puros y no realizando excesos. Como señala Renate
Syed, esta idea encaja perfectamente en los análisis de Mauss, según los
cuales “la alimentación es el punto en que se encuentran cuerpo, alma y
sociedad”1.
“Comemos lo que somos” indica que en una sociedad no todos sus miembros tienen un mismo sistema alimentario: no todos los individuos toman los
mismos productos, ni de la misma calidad, ni con igual frecuencia, ni cocinados de la misma manera. La fragmentación social por el rango o la clase
social, por el sexo, por la edad y por otras variables, sobre todo estructurales,
determina la existencia de diferentes sistemas alimentarios, aunque existan
algunos elementos comunes entre ellos. No es preciso acudir al sistema de
castas de la India para comprobarlo. En el Mediterráneo, al menos hasta muy
recientemente, existían al menos dos sistemas alimentarios diferentes: el que
en Andalucía era denominado “comidas de ricos” y el que se nombraba como
“comidas de pobres”. E incluso si ambos sistemas se han acercado hoy, la
calidad y frecuencia de los productos siguen reflejando “quiénes somos”, es
decir, a qué categoría social pertenecemos, cual es nuestra identidad social.
Ritualización de la comida y comidas rituales
Fue Mary Douglas quien señaló que, en cuanto animal social, el hombre
es un animal ritual. Por mi parte, en las clases en mi Universidad, señalo que
1 Syed, Renate (2002), “La sacralidad de la comida. Comer lo sagrado. Aspectos religiosos
de la conducta alimenticia en el hinduismo”, en Scmidt-Leukel, Perry (coord.), Las religiones
y la comida, Ariel, Barcelona, p. 149.
13
los humanos somos animales simbólicos y no sólo sociales, ya que somos
los únicos seres que atribuimos significados muy diversos a unos mismos
referentes, sean estos parte de la naturaleza, hechos sociales o experiencias
personales.
En dos grandes ámbitos podríamos situar la relación entre la comida (incluyendo en esta categoría los sistemas alimentarios en todas sus dimensiones y cuanto refiere a la ingesta de productos sólidos, líquidos e incluso gaseosos), cada sociedad concreta (considerando sus diversos grupos sociales,
definidos básicamente por la etnia, el género, la posición social y la edad) y
cada sacralidad (conjunto de valores, fuerzas y, en su caso, seres construidos
como extrasocietarios que representan el consenso ideático entre los diferentes grupos sociales y actúan como Absolutos Sociales y ejes de la reproducción social y el pensamiento hegemónico)2. El primero de estos ámbitos es
el de la relación entre comida y sacralidad. El segundo, el de la relación entre
comida y sociedad. Ambos ámbitos son universales, es decir, están presentes
en todas las sociedades humanas, y se encuentran, sin duda, interrelacionados pero conviene analizarlos separadamente, para mayor claridad.
La sacralidad de la comida: creencias y ritos
La regulación del comer por los sacros
Como sabemos, ningún grupo humano considera como comida, o como
elementos susceptibles de ser transformados en tal, todos los recursos que
tiene a su alcance y que serían aptos para responder al instinto de subsistencia individual. Esto indica que en todas las sociedades han existido y existen
preceptos, prohibiciones y tabúes referidos a la comida que son explicados
bien como mandatos de la Naturaleza, como dictados de Dios o de los Dioses, o como normas de la Razón y la Ciencia. Hago esta afirmación desde la
consideración de la Naturaleza, de la Divinidad y de la Razón y la Ciencia
como otros tantos Sacros en potencia; el primero y el tercero laicos y el se-
2 Moreno, Isidoro (1998), “¿Proceso de secularización o pluralidad de sacralidades en el
mundo contemporáneo?”, en Nesti, Arnaldo (a cura di), Potenza e Impotenza della Memoria.
Scritti in onore di Vittorio Dini, Tibergraph Ed., Roma, pp. 170-184.
14
gundo religioso, situados todos ellos en un nivel extrasocietario, es decir con
leyes fueras del alcance de los humanos3.
Las regulaciones de la comida: qué se puede comer, beber o inhalar y que
no, quiénes pueden o no hacerlo, de qué modo, cuándo, dónde y con quiénes,
se explican y legitiman por referencia, respectivamente, a las leyes de la Naturaleza, a la voluntad de los Dioses o de Dios, o a los dictados de la Razón
y de la Ciencia; es decir, por referencia a la sacralidad hegemónica en cada
sociedad, en cada “nosotros” colectivo culturalmente definido. De aquí que
cuanto está relacionado con la comida tenga un fuerte componente identitario: las identidades sociales – sean mayoritarias o minoritarias – se expresan,
refuerzan y reproducen activando elementos y complejos culturales propios,
entre ellos, en un lugar destacado, la comida.
Qué se puede y no se puede (o no se debe) utilizar de la Naturaleza para
alimento es uno de los rasgos más definidores de todas las culturas. El “no
dañar” a ningún ser vivo e incluso “no dañar” a la tierra – la Gran Madre,
la Pacha Mama – es un mandato esencial en muchas sociedades: no sólo
en gran parte de las mal denominadas primitivas sino también en grandes
civilizaciones como la andina, la hindú y otras. Las ceremonias consideradas
imprescindibles para mantener o restaurar el equilibrio con la Madre Tierra
a la que se agrede obteniendo de ella productos, los tabúes en cuanto a la
carne de numerosos animales e incluso sobre el consumo de ciertos vegetales
en prácticamente todas las sociedades antiguas y modernas, la prescripción
contenida en el Islam y en los textos hebráicos de la forma en que han de ser
sacrificados los animales para que su consumo sea admisible, las prohibiciones – no consideradas tales sino normas sin necesaria explicación – en las
sociedades dichas desarrolladas, el apoyo en estas de manipulaciones genéticas en la agricultura y la ganadería con potenciales efectos muy negativos
con la coartada de que están inscritas en el progreso científico y significan
desarrollo… están reflejando cómo todas las sociedades humanas poseen
regulaciones y otorgan legitimaciones, respaldadas por los correspondientes
sacros, respecto a los componentes de la comida y la definición mismas de
esta.
También es una experiencia vivida por cualquier ser humano – al menos
anteriormente al actual proceso de globalización de la lógica del Mercado
– que, sin necesidad de prescripción obligatoria, existen comidas que sólo
3 Moreno, Isidoro (2002), “Religión, Estado y Mercado. Los sacros de nuestro tiempo”,
en Zambrano, Carlos V., Confesionalidad y política. Confrontaciones multiculturales por el
monopolio religioso, Universidad Nacional de Colombia, Bogotá, pp. 35-52.
15
se utilizan en determinadas épocas o momentos del año. No me refiero a
la estacionalidad de los productos, sobre todo vegetales, sino a que determinados alimentos, formas de cocinar, sabores y olores están directamente
relacionados con rituales concretos o con etapas del ciclo festivo anual. Así
en España, y en otras sociedades mediterráneas, el consumo de pescado, especialmente de bacalao, cocinado de muy diversas maneras, es muy intenso
durante la Cuaresma, como sustitutivo de la carne. En torno al ayuno y abstinencia cuaresmal como prescripción religiosa, se dieron un gran número
de rituales – algunos de los cuales se mantienen vigentes en determinados
lugares – como en los cuarteles de las corporaciones bíblicas de la Semana
Santa de Puente Genil, en la provincia andaluza de Córdoba, donde se arranca cada semana una de las siete piernas de una efigie de “vieja cuaresmera”:
una vieja vestida de negro con un cesto lleno de pescados y con siete piernas
que representan las siete semanas de prohibición de la carne. En una comida
o cena semanal – que, desde luego, rompe la ortodoxia del ayuno – se le
arranca una pierna, señalando que ya faltan siete días menos para el final de
la prohibición. Un final que, en otros sitios, es o era marcado por el degüello
de la vieja y el fusilamiento y quema del judas – esto último, sobre todo, en
pueblos rurales donde existe gran afición a la caza – o, como ocurría en la
propia ciudad de Sevilla hasta los últimos años del siglo XIX, tirando desde
el campanario de la Giralda, durante el repique de la Resurrección, platos de
pescado y otros alimentos que podían ya ser sustituidos por otros con carne,
tocino u otras grasas animales.
El roscón de Reyes, con una moneda o figurilla en su interior – la “haba”
– es específica para este día, 6 de enero. Julio Caro Baroja nos señala que
la costumbre existía ya dentro de las Saturnalia y también era realizada en
el Al-Andalus musulmán4. Continúa siendo tradicional el consumo en gran
escala de determinados dulces durante el tiempo de Navidad – en lugares
como Estepa (Sevilla) la producción y exportación de polvorones, mantecados, alfajores y similares se ha convertido en una importante fuente económica, como ya lo era la fabricación de turrones en diversas localidades de la
provincia de Alicante, en el sureste de España. Durante la Semana Santa, el
olor a torrijas, pestiños y otros alimentos realizados en las casas, con pan o
harina de trigo, vino o leche, aceite y miel se reproduce anualmente en todos
aquellos lugares – que son mayoría en Andalucía y otras regiones de la península ibérica – donde la Semana Santa constituye un hecho social total o,
4
Caro Baroja, Julio (1979 [1965]), El Carnaval (Análisis histórico-cultural), Taurus,
Madrid, pp. 318-319.
16
al menos, una fiesta importante5. Y el domingo de Resurrección, también en
muchos lugares, se siguen realizando hornazos y huevos de Pascua.
En todos estos ejemplos, y en muchos otros, la realización y consumo de
alimentos y platos especiales en épocas señaladas del año tiene, sin duda,
un origen religioso – formaba parte de un conjunto de preceptos y rituales
pertenecientes a la sacralizad religiosa – pero el proceso de laicización no
ha conllevado su desaparición. Convertido en costumbre, ha tenido lugar
una refuncionalización mediante la cual la producción y consumo de estos
alimentos se ha resituado ahora, principalmente, en el ámbito identitario, al
convertirse en referentes de la memoria colectiva y en elementos centrales de
la reactivación de culturas locales.
También en los últimos doscientos años han aparecido nuevos ritos alimentarios alejados del ámbito religioso pero no por ello menos fuertes. Así,
por ejemplo, desde comienzos del siglo XX, la costumbre en España de inaugurar el año tomando una uva por cada campanada de las doce de la noche al
inaugurarse el nuevo año. Este rito, de cumplimiento general en la población
española, nació de la necesidad de consumir uva de mesa sobrante tras cerrarse las exportaciones en los años de la Primera Guerra Mundial, pero tuvo
tal éxito que, desconectado de este concreto motivo económico, se consolidó
como un rito inexcusable, del que pocos conocen su origen.
La comida en el hinduismo, el Islam y el judaísmo
En el hinduismo, no sólo el sacrificio y consumo de vacas cebúes está
drásticamente prohibido – aunque en el siglo III a.C. aún no existía este tabú
– sino también el cerdo, el gallo, la paloma o la rana, e incluso la cebada, el
ajo y las cebollas, mientras que los productos de la vaca viva son considerados santos, puros y purificadores. En general, la filosofía sobre la comida, en
las creencias de los diversos hinduismos, piensa a esta como sagrada porque
las personas, al comer, participan del cosmos y al comer lo sagrado participan de lo divino6.
En otra de las grandes religiones, el Islam, la comida es considerada explícitamente como un placer. Probablemente, los numerosos textos coránicos
5
Moreno, Isidoro (1986), “Religiosité populaire andalouse et catholicisme”, en «Social
Compass. Revue Internationale de Sociologie de la Religion», XXXIII-4, pp. 437-355; y (2008),
“La Semana Santa andaluza como hecho social total: continuidades, refuncionalizaciones y resignificaciones”, en Ponga, Alonso, Luis, José y otros (coords.), La Semana Santa. Antropología
y Religión en Latinoamérica, Ayuntamiento de Valladolid, Valladolid, pp. 193-205.
6 Syed, Renate, op. cit., pp. 138, 149.
17
en este sentido, sobre todo referidos a la abundancia y bondad de los alimentos que son consumidos en el paraíso, tengan mucho que ver con las limitadas potencialidades alimenticias de los territorios en los que surgió dicha
religión. Este carácter limitado de los bienes alimenticios, unido a la prohibición de consumo de cualquier producto derivado del cerdo – prohibición que
comparte con el judaísmo y el hinduismo –7 y del reforzamiento moderno
de la prohibición del alcohol, hace aún más significativa la importancia del
precepto de ayuno en las sociedades islámicas. En un contexto en principio
de no abundancia, el énfasis en la ascesis, en el ayuno, cobra una fuerte significación en cuanto a autodisciplina sólo es posible por ser un precepto dimanante de la sacralidad: del mismo Dios. El mes del Ramadán supone, a la
vez, la época de mayor austeridad – no se pueden ingerir alimentos sólidos ni
líquidos, ni fumar tabaco ni otras sustancias, ni tener actividad sexual, desde
el momento del alba “en que puede diferenciarse un hilo blanco de uno negro” hasta la puesta de sol – y de mayor fiesta, ya que el rompimiento diario
del ayuno y, sobre todo, los dos días de celebración del final de este suponen
no sólo grandes comidas – en la medida de las posibilidades de cada grupo
doméstico – sino una intensificación de las relaciones sociales en un contexto muy ritualizado. Tampoco es irrelevante que la otra fiesta más importante
en el mundo musulmán, la Fiesta del Sacrificio, que señala el fin de la peregrinación – real o virtual – a la Meca, gire en torno, como su nombre indica,
del sacrificio y comida del cordero o, sustitutivamente, de otros animales.
Así, tanto el ayuno y las comidas que lo rompen, diaria o anualmente,
como la comida con que concluye la situación liminar que representa el peregrinaje, son sagrados. Como también lo es el mandato de que la carne de un
ser vivo, para constituirse en alimento humano, debe proceder del sacrificio
realizado de la forma correcta: con el animal orientado hacia la Meca – la
misma orientación de los espacios sagrados para la oración – y degollado
por un corte en la carótida que implique la muerte rápida, con el menor dolor
posible y la más rápida interrupción del flujo de sangre; sangre que es tabú
7 Numerosas son las teorías para explicar este tabú. Se ha argumentado que se trata de una
medida para prevenir la triquinosis, o que su finalidad es económica y ecológica, para evitar que
este animal omnívoro compita con los humanos por alimentos y por el uso de un agua escasa
– es esta la teoría más extendida, con Mavin Harris a la cabeza (Harris, Marvin, 1983, Vacas,
cerdos, guerras y brujas: los enigmas de la cultura, Alianza Ed., Madrid; y 1988 Bueno para
comer, Alianza Ed., Madrid) Y también se ha señalado que podría tratarse de una herencia del
judaísmo, que lo adoptó como forma de diferenciación respecto al entorno politeísta en el que
este se desarrolló, en medio de sociedades en las que los cerdos eran muy utilizados en sacrificios religiosos (Heine, 2002, pp. 92-93).
18
para el consumo y que debe haber desaparecido totalmente de la carne que
se vaya a consumir.
Muy parecida relación con la sacralidad, aunque con características singulares, tiene el “comer koscher” judaico. En el Pentateuco, y también en la
Mischua y el Talmud, están las bases de la distinción entre animales koscher
(apropiados para ser comidos) y animales que no son koscher (no apropiados). Significativamente, en principio, esta distinción no es resultado directo
de un acto de voluntad de Yaveh sino de las propias leyes de la naturaleza
– que, por otra parte, sí son resultado de la planificación divina –. Como
sabemos, y puso de manifiesto con maestría Mary Douglas8, no son koscher
aquellos animales que son considerados “excepciones” a las reglas naturales: los que tienen alas y no vuelan, los marinos sin aletas o escamas… Aunque también están prohibidos los que son koscher – como lo son la totalidad
de los rumiantes – pero cuya muerte no puede garantizarse que sea rápida y
con el menor dolor posible; de aquí la prohibición de la caza, por ejemplo
de ciervos, que pueden huir malheridos y prolongar durante horas o días su
agonía.
La preocupación que hoy llamaríamos ecológica y de preservación de las
especies está muy presente en los preceptos sagrados del judaísmo. Así, por
ejemplo, se prohíbe también sacrificar al mismo tiempo a un pájaro y sus polluelos o a una vaca y su ternero. Y entre los preceptos sagrados tras el diluvio – los denominados preceptos noéticos – se encuentran ya la prohibición
de dar tormento a los animales y de derramamiento de sangre de animales de
sangre caliente, por lo que los sacrificios deben hacerse por especialistas de
la manera adecuada – que ya indicamos al tratar del islamismo – y procederse al total desangrado de la carne antes de ser cocinada9.
Cristianismo y comida: diversidad cultural, énfasis
en el cuerpo y teofagia
Respecto a la tradición cristiana, hay que tener siempre presente que el
cristianismo no fue solamente una reforma del judaísmo sino la síntesis entre
un judaísmo innovado y la filosofía helenística. En su origen no están sólo
Jesús y los evangelistas sino también Saulo de Tarso y, en última instancia,
8
Douglas, Mary (1969), Purity and danger: an analysis of concepts of pollution and taboo,
Routledge & Kegan Paul, London.
9 Lapide, Pinchas y Ruth (2002), “Comer koscher: un componente de la identidad judía”, en
Schmidt-Leukel, Perry (coord.), op. cit., p. 77.
19
Platón. En el cristianismo – o mejor los cristianismos – no están tan presentes como en las otras dos religiones del libro las interdicciones respecto a
la comida. Y, por otra parte, su extensión por continentes y territorios muy
variados ambientalmente ha hecho que en el mundo cristiano, respecto a la
comida, la diversidad sea la característica más evidente. Son las tradiciones
culturales propias de los diversos pueblos y no el hecho de que la religión
mayoritaria de estos sea la cristiana, en alguna de sus iglesias, lo que marca las características principales de los sistemas alimentarios. No hay nada
que corresponda a creencias o preceptos religiosos cristianos para que, por
ejemplo, en Andalucía y Cataluña – como también sucede en Marruecos –
los sectores populares consuman toneladas de caracoles mientras en otros
muchos países europeos este animal es considerado asqueroso, salvo, quizá,
si es presentado como delicatessen francesa. O para que en México se sigan
tomando chapulines (cigarras o langostas condimentadas con ají). En el caso
del cristianismo, los preceptos respecto a la comida no se centran especialmente en qué se puede o no comer sino en cuándo no se debe comer qué y en
qué contextos se deben comer determinados alimentos.
Como todas las religiones, también el cristianismo ordena la ascesis respecto a la comida – que suele ir unida, asimismo en todas las religiones, a la
ascesis en el sexo, a la prohibición de actividades sexuales –. La abstinencia
de carne, en especial los viernes y en fechas determinadas del año, el ayuno
y, sobre todo, el ayuno y abstinencia durante la Cuaresma y la Semana Santa
es una característica propia del cristianismo, que impregnó fuertemente a
este durante siglos y que, aunque debilitada, continúa hoy presente, como ya
vimos anteriormente. La idea de purificación espiritual como preparación de
la Resurrección es, sin duda, importante pero quizá, al menos durante siglos
en las sociedades católicas mediterráneas, lo que predominó fue la idea de
penitencia, mediante la mortificación de los cuerpos por la abstinencia y el
ayuno en la comida y el sexo, la flagelación y otras agresiones corporales, y
el permanente énfasis en los tormentos físicos del infierno que han de sufrir
eternamente quienes mueren en pecado. En este sentido, es significativo que,
al menos desde la Edad Media, el cristianismo ha enfatizado por todos los
medios la visión del infierno mientras que el Islam ha enfatizado la visión del
paraíso, con lo que ello significa de subrayar principalmente, en uno y otro
caso, el castigo o el premio. En correspondencia, la consideración de la comida como placer no ha formado parte del núcleo de creencias cristiano, aunque
ello no signifique que muchos pueblos cristianizados no tengan este imaginario; pero la fuente de esta posición hedonista no ha sido el cristianismo.
20
Una creencia y comportamiento que es central en el cristianismo, concretamente en el catolicismo, referida al ámbito de la comida sí es singular en el
contexto de las religiones monoteístas. Me refiero a la teofagia. La transubstanciación es el dogma quizá central de la teología católica al menos desde
Trento (aunque la creencia existía ya muy anteriormente y se fortaleció contra los cátaros y otros disidentes con el objetivo, entre otros, de reafirmar
el poder sacerdotal basado en el monopolio de la consagración). El dogma
católico afirma que, tras la consagración, se produce efectivamente, y no
sólo simbólicamente, un verdadero cambio de substancia en el pan y el vino:
“Cristo mismo, vivo y glorioso, está presente de manera verdadera, real y
substancial con su Cuerpo, su Sangre, su Alma y su Divinidad” (Concilio
de Trento, DS 1648, 1651). La Misa, pues, no es sólo ocasión de eucaristía
(en griego, eucharistia significa “dar gracias”), ni una simple rememoración
de la última cena de Jesús, sino el contexto en el que se produce la transubstanciación, tras ser pronunciadas las palabras adecuadas por la persona
adecuada, del pan y el vino en verdaderos cuerpo y sangre de Cristo. La
comunión, entonces, se convierte no sólo en el vínculo entre los que comen
juntos un mismo alimento – comensalismo que pasa a ser secundario – sino,
sobre todo, en teofagia: en comer lo sagrado no metafórica o simbólicamente
sino realmente. Y como Jesús fue, a la vez, dios y hombre verdadero según
la teología cristiana, la comunión no puede ser calificada de otra manera sino
como una comida sagrada, en el sentido literal de que se come al sacro, a la
divinidad, y un acto de canibalismo ritual, en la medida en que comemos el
cuerpo y sangre verdaderos no sólo de Dios sino de Jesús-hombre.
Comida y sacralidades laicas
Aunque brevemente, por razones de tiempo, voy a hacer alguna referencia a las sacralidades laicas y la comida. Ya al principio hice mención de
algunas cuestiones referidas a la relación entre comida y sacros (o Absolutos) no religiosos: la Naturaleza, la Razón y la Ciencia (en la medida en que
esta se autonomiza de la política y la ética), a los que habría que agregar el
Estado-Nación y el Mercado “libre”. No es novedad que en una misma sociedad coexistan varios sistemas alimentarios que se correspondan con las
clases sociales o los bloques de clase, y que las jerarquías sociales se reflejen
en diferentes alimentos, cocinas y maneras de la mesa. Incluso esto es cierto
al interior del grupo familiar. Los cambios en este vienen reflejados en cambios en la comida: un ejemplo de ello es que en nuestras sociedades dichas
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desarrolladas ya no funciona la regla, hace sólo unas décadas inamovible,
de que todos los miembros de la familia han de comer juntos, siempre a la
misma hora, presididos por el padre, con la madre como camarera y sin que
se susciten temas que puedan desembocar en discusión. De la prioridad del
padre en cuanto al orden de servir los platos y la adjudicación de los mejores
alimentos – de aquí la muy conocida frase, al menos en España, “cuando
seas padre comerás huevos” – se ha pasado al igualitarismo e incluso a la
prioridad de los niños/as.
El sacro político, la nación-estado, tiene como uno de sus elementos culturales definidores el sistema alimentario. El contraste entre países es, en
gran medida, un contraste entre cocinas: un contraste de productos, sabores
y olores. Por ello, en estados que son en realidad plurinacionales, aunque ello
no sea reconocido políticamente, hay una pluralidad de cocinas. Por ello,
también, los grupos nacionales en la emigración o el exilio conservan, por
generaciones, sus propias formas de alimentarse y cocinar. Incluso cuando
se ha producido una fuerte integración social en el país receptor, el “nosotros” colectivo se mantiene y reproduce activando elementos definidores de
su identidad cultural de origen, entre ellos muy principalmente su cocina y
formas alimentarias.
El sacro hegemónico actual, el Mercado, ha influido en una doble dirección en los sistemas alimentarios, como en los demás elementos marcadores
de identidad cultural. Por una parte, avanzando en la homogeneización al
hacer que alimentos producidos en un lugar puedan ser consumidos a miles
de kilómetros y que, potencialmente, en cualquier lugar del mundo se pueda
adquirir cualquier alimento en cualquier época del año (otra cosa es que los
sabores, olores y texturas sean o no los auténticos). Pero, por otra, como
también ha ocurrido en otros ámbitos, la uniformización ha provocado su
contrario, activando las características locales. El rescate de platos y sabores
tradicionales, la revalorización de la “comida casera” y de productos casi
desaparecidos son el reflejo de la glocalización10 en el ámbito identitario.
10 El termino glocalización fue acuñado en la sociología británica de finales de los años
ochenta para reflejar el carácter complementario, aunque opuesto, de la doble dinámica que
caracteriza nuestro mundo actual: globalización y localización (o activación de las identidades
colectivas), sintetizándolas en una sola palabra. Ver Robertson, Roland (1996), Globalization:
social theory and global cultura, Sage Publ., London, y Featherstone, Mike, Lash, Scott y
Robertson, Roland (1997), Global Modernities, Sage Publ., London, También, Moreno, Isidoro
(1999), “Globalización, Identidades colectivas y Antropología”, en Rodríguez Campos, Joaquín
(coord.), Las identidades y las tensiones culturales de la modernidad. Homenaje a la Xeración
Nós, FAAEE-Asociación Galega de Antropoloxia, Santiago de Compostela, pp. 95-137 (2002)
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La comida en contextos rituales: comensalismo
Más allá de la significación en sí mismos de los alimentos a consumir –
que pueden expresar mandatos sagrados o preceptos religiosos, o incluso
consistir en el propio sacro, como ya hemos visto ocurre en la comunión
católica –, el otro ámbito en que la comida es central es el del comensalismo.
Como señalé anteriormente, el no comer en solitario es un universal humano que se refleja cotidianamente en la comida familiar y en la propia
definición de familia. Pero más allá del contexto doméstico, el comer con
otros, en ocasiones especiales y, generalmente, en lugares no cotidianos, es
también un comportamiento presente en todas las culturas para producir, reproducir o reforzar vínculos sociales. Así, el comensalismo, como ya indicara Durkheim, supone una reafirmación periódica del grupo social que se
visibiliza a través del comer y beber juntos. Esto activa, o incluso puede
crear si no existiera previamente, el sentimiento de pertenencia común, de
identidad compartida. De aquí que todas las alianzas, e incluso los negocios
mercantiles – antes del predominio de las transacciones anónimas dentro de
la llamada “ingeniería financiera” – se sellaran con unas copas de vino o con
una comida11. De aquí también, hoy, la importancia de las comidas de trabajo
(de negocios o políticas). De aquí, asimismo, que, desde hace milenios, y
ello continúa hoy, se organicen comidas muy formalizadas cuando visita un
país un presidente o representante de otro: la potencial hostilidad, o al menos
desconfianza, siempre latente se trata de apaciguar comiendo, bebiendo y
conversando. La creación de una comunitas, que puede extenderse o no en el
tiempo, pero que es vivida como tal al menos durante el tiempo del ritual que
es, en sí mismo, todo comensalismo, constituye la función central de este.
Aún siendo importantes, lo central no son ya aquí los alimentos mismos –
aunque suelen ser diferentes a los cotidianos y prepararse, o encargarse, con
especial cuidado – sino el hecho mismo de comer (y beber) juntos.
“Globalización y localización: las dinámicas de nuestro tiempo”, en Álvarez Munárriz, Luís
y Fina, Antón Hurtado (coords.), Identidad y pluriculturalidad en un mundo globalizado,
Universidad Internacional de Mar-Ed. Godoy, Murcia, pp. 19-43; y (2005), “Fundamentalismos
globalizadores versus diversidad cultural”, en Agudo Torrico, Juan (coord.), Culturas, poder
y mercado. X Congreso de Antropología, FAAEE y Asociación Andaluza de Antropología
Sevilla, Fundación El Monte, pp. 37-58.
11 Ver Moreno, Isidoro (1995), “La cultura del vino en Andalucía: identidades socioculturales y culturas del trabajo”, en Iglesias, Juan José (coord.), Historia y cultura del vino en
Andalucía, Publicaciones de la Universidad de Sevilla, Sevilla, pp. 179-199.
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La práctica regular del comensalismo es muy importante para el mantenimiento tanto del asociacionismo formalizado como de la sociabilidad no
institucionalizada. De aquí la importancia de las comidas anuales, mensuales
o incluso semanales de los miembros – al menos de los más activos – de muy
diversos tipos de asociaciones: hermandades, cofradías, contradas y otras
múltiples asociaciones para el ritual, pero también clubes de varones, o grupos de mujeres, o peñas de aficionados o tifossis futbolísticos, o compañeros
de trabajo, o antiguos alumnos de un mismo curso en la escuela o la universidad, y muchas otras. De aquí, también, el que varios amigos, o matrimonios
de amigos, o jóvenes amigos, se reúnan los fines de semana, en la casa de
alguno de ellos, en un restaurante, en nomadeo callejero para consumir vino
y “tapas”12, o en lugares prefijados para hacer “botellona”13, practicando
un ritual de comensalismo para reproducir y ampliar sus vínculos sociales
y comunicarse a través no sólo de la palabra sino también de la comida y la
bebida (y, eventualmente, también del consumo de drogas) en común.
Es esta creación y recreación de communitas lo que hace muy importante
la decisión de a quién invitar, y a quiénes no, a la celebración de los ritos
de paso, sobre todo a las bodas aunque también a nacimientos (bautizos) o
entierros e incluso primeras comuniones, fiestas de quinceañeras – especialmente importantes en América Latina – o antiguas fiestas “de presentación
en sociedad” de las jóvenes de estratos sociales altos. De forma generalizada,
todos estos rituales, sean del tipo que sean, e incluyan o no ceremonias religiosas, tienen su centralidad en la gran comida, que será abundante y larga,
con alimentos especiales, bebida abundante y, con frecuencia, música. Participar en este comensalismo supone la inclusión en el “nosotros” colectivo
que el propio comensalismo define. No ser invitado, o no asistir, supone la
exclusión o autoexclusión de ese “nosotros”. En uno y otro caso, las consecuencias no serán sólo rituales.
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Tapas son pequeños platos de comida con los que se acompaña el beber en muchos lugares de España, originariamente en Andalucía. “Ir de tapas” significa comer o cenar recorriendo
diversos bares y tomando en cada uno de ellos una copa de vino y cerveza y algunas tapas, sin
sentarse formalmente en un restaurante.
13 Una “botellona” o “botellón” es una concentración más o menos espontánea de cientos o
miles de jóvenes, los viernes y sábados a partir de las doce de la noche o una de la madrugada
en un espacio público abierto – generalmente una plaza o unos jardines – donde se reúnen en
grupos para beber bebidas alcohólicas, que llevan ellos mismos, y conversar de pie durante
horas. Surgieron en casi todas las ciudades españolas a primeros de los años ochenta y han sido
muy criticados, sobre todo por los habitantes de las viviendas próximas, debido al ruido y la
basura que conllevan. Aquí queremos subrayar los aspectos rituales de comensalismo de esta
nueva y potente costumbre.
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La comunidad que recrea el comensalismo refiere generalmente a un imaginario igualitarista y frecuentemente intergeneracional – como ocurre en
las comidas familiares, las celebraciones de cumpleaños y días del santo y
buena parte de los ritos de paso, a excepción del de la muerte – incluyendo a
veces a los antepasados, a quienes puede ofrecérseles lo mejor de la comida
o ser recordados explícitamente de diversas formas. Pero también el comensalismo puede reflejar, y reproducir, las desigualdades sociales de género,
de clase social y otras. En este caso, la comunidad imaginada es de carácter
desigualitario aunque pueda no percibirse así sino como reflejo del “orden
natural” de las cosas: papel subalterno de las mujeres o ausencia total de estas en el comensalismo masculino excluyente, muy general en las sociedades
mediterráneas al menos hasta recientemente, o visibilización de las desigualdades de clase, como ocurre en las “comidas de pobres” o “caridades”, o en
la colocación en la mesa por estricto orden de rango social. En estos casos, el
comensalismo con imaginario no igualitario representa un ritual de aceptación de las desigualdades, que no se cuestionan sino que se aceptan mediante
el reforzamiento del vínculo social basado en la jerarquía.
Es necesario subrayar que, al igual que todas las religiones tienen prescripciones y prohibiciones sobre los alimentos y obligan al ayuno ritual,
también todas ellas prescriben el comensalismo, al igual que la oración o
el canto colectivos, como medio para reproducir identidad religiosa – aunque hoy, como vimos, la conversión de los preceptos y normas religiosos en
costumbres, ha posibilitado que el ámbito del “nosotros” que se reproduce
sea prioritariamente el identitario –. Pero, quizá como ninguna otra, sea el
cristianismo en su versión católica la religión que más ha unido la sacralidad
del alimento con la sacralidad del comensalismo. En efecto, como ya vimos,
la misa católica no es sólo la reunión de fieles para escuchar la palabra divina
y para rememorar la muerte y resurrección de Dios-Hijo, sino el banquete
– el ágape – donde se va a producir el alimento más sagrado imaginable: el
del cuerpo y la sangre del propio Dios, y donde este va a alimentar espiritualmente a los asistentes. Ello significa una doble comunión: entre los fieles
que practican el comensalismo y entre cada creyente y el propio Dios, por
el carácter y substancia del alimento que se ingiere en común. Esta doble
dimensión de la teofagia entiendo que es central, aunque haya sido debilitada
en la conciencia de los participantes por el papel protagonista del sacerdote,
necesario para que se produzca el milagro de la transubstanciación.
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Comensalismo, sacralidades laicas y reproducción identitaria
Unas últimas consideraciones en cuanto al papel y funciones del comensalismo en sociedades, como las europeas actuales, en las que la centralidad del sacro no está ya ocupada por creencias y rituales religiosos sino por
creencias, mitos y rituales laicos sacralizados (es decir, no cuestionables por
pertenecer a un ámbito definido como extrasocietario aunque no sea sobrenatural). Algunas cuestiones sobre esto han sido ya apuntadas anteriormente,
pero creo conveniente reafirmar que el comensalismo, como en general los
rituales, continúa teniendo un lugar central como lugar de reproducción de
identidades sociales y, en general, del orden social dominante, aunque también pueden ser escenarios de conflicto y reivindicación.
Hoy, el comensalismo se realiza mayoritariamente en contextos desligados de la religión pero que no por ello están menos ritualizados. El mundo de
los negocios, de las profesiones, de la academia, de la política, de la amistad,
del compañerismo, del parentesco y del ciclo vital de los individuos son
escenarios de este nuevo comensalismo que, en ocasiones, coexiste con el
tradicional de raíces religiosas. Un buen ejemplo podría ser la Feria de Abril
de Sevilla, que es la otra gran celebración de la ciudad, junto a la Semana
Santa, iniciada a mediados del siglo XIX por la burguesía regional sin connotaciones ni símbolos religiosos. En ella, la comida y, sobre todo, la bebida,
son los elementos claves no sólo para dar paso al cante y el baile sino, sobre
todo, para la reproducción de vínculos sociales tanto entre los miembros o
socios de una misma caseta – espacio efímero, siempre con cocina, bebida y
tablao, donde se convive, salvo para el descanso, durante siete días – como
entre cada uno de estos y los familiares, amigos y amigos de los amigos que
sean en ella sus invitados, los cuales serán agasajados, sin permitirles pago
alguno, con bebida y comida sin otro objetivo, al menos en principio, que
posibilitar la conversación como intercambio y fortalecer, o establecer, vínculos sociales mediante el ritual del comensalismo (que aquí es don aunque
algunos, no muy adecuadamente, lo interpreten como potlatch).
Habría, también, que analizar, aunque ello no sea posible ahora, los nuevos ritos en relación con la comida, su preparación y su consumo en nuestras
sociedades contemporáneas en las que el sacro dominante es el Mercado.
Para ello, sería necesario dar la debida importancia no sólo a los rituales del
Mercado en relación con la comida – las nuevas valoraciones de alimentos
y platos, las cocinas-fusión, el rito de la compra en familia en los Hypermercados y grandes centros comerciales, los aspectos rituales del fastfood
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y las grandes cadenas como MacDonalds y similares, o las nuevas formas
de comensalismo – sino también a la renovada importancia de alimentos,
cocinas, y formas de comensalismo locales que se han activado tanto por
efecto del interés diversificador de la oferta que interesa hoy al Mercado
como en cuanto signifiquen formas de resistencia o alternativas al avance de
la lógica de este. Sin olvidar tampoco la reivindicación que se hace, desde
algunos ámbitos, de la propia gastronomía como una combinación de ciencia
y de arte. La distinción como doctores honoris causa de algunas importantes
universidades a restauradores de renombre – como el catalán Ferrán Adriápodría estar apuntando hacia un nuevo tipo de sacralización de la comida y
el sistema alimentario que preparan esos restauradores de lujo.
Hoy, ya no basta, al analizar la comida y la sacralidad, con profundizar en
el sentido del predominio, en las diversas culturas, de lo crudo, o lo cocido,
de lo asado o lo hervido, de lo frito o lo conservado. Tampoco con estudiar
la relación entre creencias religiosas y rituales de la alimentación, especialmente los diversos tipos y significados del comensalismo. Todo ello hay que
hacerlo, sin duda, pero sin olvidar que, actualmente, todo cuanto se refiere a
lo alimentario, en todas sus vertientes y dimensiones, se encuentra enmarcado en la doble coordenada de la globalización mercantilista y la activación
de las identidades colectivas. Y se sitúa en la confrontación, y los consensos,
entre las diversas sacralidades que pugnan por la hegemonía: el Mercado, el
Estado y la Religión, los cuales constituyen la verdadera trinidad sagrada de
nuestro tiempo14.
Sevilla-Roma, marzo de 2011
14 Moreno, Isidoro (2003), “La trinidad sagrada de nuestro tiempo: mercado, estado y religión”, en «Revista Española de Antropología Americana» (Volumen Extraordinario en memoria de José Alcina Franch), n. 33, pp. 13-26; y (2009), “El mercado como religión y el papel
de las religiones bajo la hegemonía del sacro mercado”, en La Natura e l´anima del mondo. Le
fronteire della globalizzazione, Mauro Pagliai Editore, Firenze, pp. 109-125.
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